Sa balca ilfatta

SA BALCA ILFATTA HA FINALMENTE UN NOME

Interessante scoperta su un naufragio del secolo scorso

DI BILLIA MURONI e ANTONIO SALEZZARI

Sa Balca Ilfatta, la nave distrutta, che ha dato il toponimo ad una località costiera tra Alàbe e Columbargia, nella marina di Tresnuraghes, ha finalmente un nome, una nazionalità e una data di nascita: si chiamava Vencedòr, era spagnola ed era stata costruita nei cantieri di El Ferrol, il porto atlantico della Galizia, nel 1755.

La storia del naufragio, raccontata dettagliatamente nel volume "Naufragios de la armada espanola" del capitano di vascello Cesareo Fernandez Duro, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, è stata ripescata in un archivio di Siviglia dalla curiosità e dall'interesse per le cose di mare del cameraman della RAI Carlo Salezzari, che ce l'ha segnalata.

Siamo nel 1810, in piena età napoleonica, a Cadice, non troppo lontano da quel Capo Trafalgar dove, il 21 ottobre 1805, appena cinque anni prima, la flotta inglese comandata dall'ammiraglio Nelson aveva sconfitto i 33 vascelli franco-spagnoli comandati dall'ammiraglio Villeneuve e si era imposta come dominatrice incontrastata dei mari. Da quegli scontri molte navi erano uscite distrutte o comunque incapaci di riprendere il mare. Un mare per di più terribile per tutto il primo decennio dell'Ottocento, caratterizzato dalla violenza prolungata del maestrale che si abbatteva sulle navi indebolite dalle battaglie provocando un numero impressionante di naufragi.

Il Vencedòr, nave da guerra armata di 74 cannoni, forse anche con un passato glorioso, era ormai una carretta inservibile, destinata al disarmo definitivo. Incapace di reggere autonomamente il mare, dovette chiedere l'aiuto dell'ammiraglio inglese Purwis, che si impegnò a rimettere insieme i pezzi per consentirgli di raggiungere, sotto scorta, il porto di Mahon, nell'isola di Minorca, per il carenaggio. Il 28 settembre 1810, terminati i lavori di riparazione, il Vencedòr imbarcò un equipaggio di 70 marinai inglesi e, al comando del tenente di vascello Mr. John Cook, scortato dal Rodney, si avviò verso Gibilterra. Vi giunse dopo pochi giorni e vi sostò per circa un mese con l'obiettivo, sollecitato dal vice ammiraglio Keats, di imbarcarvi i convalescenti della febbre sviluppatasi durante i trasferimenti delle reclute da Cartagena. Quando giunse il nulla osta all'imbarco dal Consiglio della reggenza, erano già sorte tali e tante difficoltà da rendere impossibile il trasferimento dei convalescenti. Le due navi dovettero riprendere il mare verso Mahon.

La navigazione andò avanti senza particolari problemi fino al 28 ottobre, quando un forte vento di sud ovest costrinse il Vencedòr a farsi rimorchiare dal Rodney. Ma la furia delle onde crebbe a tal punto da far saltare il cavo: il rimorchiatore inglese fu sospinto lontano e le sue luci si persero nel buio della tempesta. La nave spagnola, il timone fuori uso e l'intero equipaggio impegnato a liberare la stiva dall'acqua che irrompeva sempre più abbondante da una fiancata, fu costretta a restare "alla cappa", con andatura e velatura ridotte al minimo. Le cannonate, sparate per segnalare al Rodney la posizione, non ottennero risposta. Per tutto il giorno seguente (29), sotto un temporale sempre più minaccioso, l'equipaggio tentò di riprendere il qualche modo il governo della nave. Inutilmente: l'acqua cresceva nella stiva, le pompe erano tutte fuori uso e i secchi assolutamente insufficienti.

La vela di un mercantile, comparsa all'improvviso tra le onde altissime, rianimò gli animi dei marinai ormai stremati. Le due navi riuscirono ad avvicinarsi e a comunicare: il mercantile si offriva, navigando a vista, di indicare la rotta. Ma il 30, un vento ancora più forte lavatosi a nord ovest, allontanò anche queste vele amiche che non poterono, come il Rodney, mantenere la promessa. L'equipaggio del Vencedòr dovette affrontare un'altra nottata di lavoro durissimo e di paura.

L'alba del 31 illuminò per fortuna un mare più calmo: il vento era quasi cessato e, in lontananza, ad est, si intravedeva una fascia di terra. Ansia, speranza e delusione si alternarono per tutta la navigazione come se, più che di un viaggio reale sballottato dalla bizzarria dei venti, si trattasse di un racconto di avventura perfettamente diretto dalla regia di un narratore sapiente. Girò il vento e la terra scomparve.

"Il mare, - racconta lo storico spagnolo seguendo la dettagliata relazione del naufragio redatta probabilmente dal comandante John Cook - molto ingrossatosi da ovest, trasportava il naviglio sulla costa occidentale della Sardegna, verso mezzogiorno, vicinissimo alla baia di Bosa. Si invocò aiuto con varie cannonate e si decise di inviare, con lo stesso scopo, una barca a terra, ma lo sfascio rese impossibile la sua partenza e l'invio di altre barche. Alle 9 di sera, intorno alle cinque miglia dalla costa e su una profondità di 22 braccia, si lasciò cadere l'ancora per assicurare la nave. Finché il vento dell'ovest, che aveva ripreso a soffiare come un uragano, eliminò il cavo della prima ancora, costringendo il naviglio sfasciato a reggersi con la seconda. In questo momento critico, senza speranza ormai di salvare la nave, rovinati i legni e sentendo l'attrito del cavo sulle rocce che annunciava l'imminente distruzione, si pensò alla sicurezza degli uomini".

Alle 11 e mezza del 2 novembre, si decise finalmente di mollare il cavo e di incastrare il Vencedòr in una stretta insenatura presso la costa di Tresnuraghes per consentire all'equipaggio di mettersi in salvo. L'abbandono della nave, guidato dall'esclusivo sentimento della salvezza individuale, fu perciò caotico e disastroso: molti furono travolti dalle spinte dei compagni più che dalle onde. "Quattordici marinai perirono in questo modo; i rimanenti, con il comandante e gli ufficiali, riuscirono, non senza fatica, a guadagnare la spiaggia di Tresnuraghes, dove furono aiutati con la massima cura dalle autorità della Marina che li fecero condurre a Bosa. Due ore dopo, del Vencedòr restava appena una traccia".

Quel che era rimasto di artiglieria, di ferramenta e di materiale utilizzabile fu ceduto alla Marina del Regno di Sardegna in cambio del grano e della pasta dati ai naufraghi. Il 9 novembre , il Rodney, sospettando, dopo il temporale che li aveva separati, il sinistro della nave scortata, giunse a Cagliari e imbarcò i sopravvissuti. Il 28 dicembre, per ordine del Consiglio spagnolo della reggenza, il grosso del relitto fu rimosso dalla baia.

Nella piccola insenatura tresnuraghese rimasero soltanto, oltre al toponimo "Sa Balca Ilfàtta", alcune travi della carena, ancora visibili nelle annate in cui il maestrale risucchia la sabbia dalla costa e dal fondale trasparente.

In " Dialogo " n° 01 del 15 gennaio 1999 - Pagina 6


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