IL LAVORO


"Non si può sapere qual è il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare, oppure se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poiché tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l'altra. È tutto lavoro e niente è lavoro nel senso sociale del termine. È la sua vita".

Jean Giono, 1938 in "Lettera ai contadini sulla povertà e la pace"


Il lavoro dei contadini fin dall'antichità è sempre stato faticoso e precario, sia per l'assenza di macchine agricole che velocizzassero operazioni come la semina o la mietitura (per le quali era inutile la forza degli animali da tiro), sia perché si era continuamente esposti all'azione degli agenti atmosferici e dei parassiti, che spesso vanificavano ogni sforzo mandando in fumo interi raccolti. Nella sua quotidianità, il contadino parte da una base di risorse autonoma e limitata e resta dentro i limiti di crescita perché le risorse a sua disposizione sono quelle date (la fertilità del suolo, la salute degli animali, la durata di attrezzi…). Ogni contadino è sempre anche un po' muratore, falegname, artigiano, a volte anche piccolo commerciante.

Il contadino non ha tempo da lasciar correre via, il tempo è legato alla meteorologia e la meteorologia alla stagionalità. Se ci sono le condizioni giuste si deve lavorare di più: il futuro non è mai certezza. Può esserci un piano, ma una nube di grandine potrebbe cambiare le carte in tavola all'ultimo istante.

La certezza arriva solamente con il contatto fisico, il lavoro è con le mani, la terra si tocca, si muove e si fa muovere. Si sente l'odore, la consistenza.

In particolare, è il grano la più importante garanzia di sicurezza. Un proverbio dice: fintzas chi su laore non est in su magasinu no est sicuru (finchè il grano non è nel magazzino non è sicuro). Nel momento in cui si trasporta il grano nel fondaco si dà il giudizio di un intero anno: bellu laore; annada bona; laore metzanu; annada mala. Il dualismo bonu e malu riferito all'anno e al raccolto misura anche la felicità ed il dolore del contadino e della famiglia: cuntentesa e tristura.

La valutazione del raccolto ripropone la cronistoria della vicenda agraria dalla semina alla trebbiatura, col recupero dei momenti più significativi: gelate di marzo, siccità di maggio, scirocco di giugno.

Ed è proprio questa cronistoria che anni addietro la Pro Loco di Tresnuraghes, con un lavoro meritorio e di grande valenza culturale, ha voluto riproporre e ricostruire attraverso la rivisitazione delle varie vasi come sa messera, s'alzola, sa trebbiadura. Progetto concretizzatosi con la rassegna de SU LAORZU ANTIGU. In queste pagine si possono rivedere, attraverso foto e video, i momenti più significativi di tale rivisitazione.

Il grano dunque, essendo un prodotto del lavoro del contadino, è anche un segno di valore, misura la condizione sociale della famiglia o meglio de sa domo.

Le foto qui riportate raccontano vite e fatiche di contadini tresnuraghesi tenacemente legati alla terra e di artigiani sapienti consapevoli che i frutti del loro lavoro sono anche e soprattutto un prezioso lascito di una natura aspra ma generosa allo stesso tempo.nserisci qui il tuo testo...



MESTIERI ANTICHI


SU MULINALZU E I MULINI

Nel Montiferro - Planargia - Marghine diversi sono gli opifici molitori concentrati soprattutto nel Riu Mannu - Riu Cherchelighes (tra i paesi di Tresnuraghes, Scano Montiferro, Sennariolo e Flussio) e presso il Riu de Buttoni (Cuglieri), Riu Sos Molinos (Santu Lussurgiu e Bonarcado), Riu Mais Impera (Seneghe), Riu Crabazza (Bosa e Suni), Riu Badu Pedrosu (Bosa), Riu Badu Iscanesu (Sindia) ) e lungo il Riu Badu Mentas (Bolotana). Alcuni opifici compaiono nel Riu s'Ena (Sagama), nel Riu Molineddu (Magomadas) e, dispersi, nei territori di Dualchi e Bortigali.


Il Mugnaio e il suo mulino

Una vecchia pubblicità intonava: "quando i mulini erano bianchi" ecc., ecc.. Non poteva esistere affermazione spudoratamente più falsa. I mulini di una volta, quelli che macinavano a pietra, tanto per intenderci, di bianco avevano ben poco. Il grano macinato, usciva dalla macina come miscela di farina e crusca, dal colore nocciola/biancastro.

Neppure il successivo setacciamento, permetteva una perfetta separazione fra farina e crusca, per cui il pane, una volta cotto, un colore brunastro, simile all'attuale pane integrale e non certamente a quello bianco che normalmente oggi siamo abituati a mangiare. Un tempo il pane di farina veniva detto bianco, perché non additivato con altre farine. La miscelazione non era dovuta all'esigenza di unire più fibra al pane, quanto all'estrema indigenza delle popolazioni bracciantili e contadine e alla loro necessità di riempire lo stomaco.

Il pane bianco è sempre stato un alimento desiderato e bramato, ma che molti, nei secoli passati, non hanno mai assaggiato. Il mugnaio era sicuramente uno di quelli che se la passava meglio: poteva sempre contare su un pizzico di farina e su qualche animale da cortile, visto che difficilmente gli mancavano granaglie.

I clienti del mulino appartenevano a tutti gli strati sociali e pagavano la molitura con una parte del prodotto macinato. Per ottenere farine ottimali, c'erano mole adatte per il grano e altre per il granturco. Queste differivano nelle scanalature che erano tracciate su di esse, rendendole più adatte per un tipo di grano che per l'altro. Questi solchi, che si trovavano tracciati come tanti raggi radiali su un lato della pietra, erano ottenuti per battitura, operazione che periodicamente i mugnai dovevano fare con un particolare martello, per avere una perfetta funzionalità della macina, in modo da ottenere un prodotto farinoso costantemente omogeneo.

Nei mulini idrauici compito del mugnaio era anche quello di regolare la portata lungo il canale di captazione dell'acqua, per il tramite di portelli che permettevano un afflusso costante di acqua al bottaccio e da qui al rotecio o palmento. Stessa attenzione il mugnaio la doveva porre alla chiusa, che sbarrava il corso del fiume o del torrente e della quale partiva la captazione dell'acqua. Questa doveva essere accuratamente manutenzionata e privata di ogni elemento che potesse danneggiarla o comunque costituire un pericolo alla sua integrità. Il danneggiamento o ancor peggio il cedimento della chiusa significava la chiusura del mulino fino alla sua completa riparazione.

Queste "naturali" incombenze non erano poi così drammatiche per il mugnaio, che sapeva dover annoverare nel suo lavoro. Ma ciò che per secoli fece "dannare" questa categoria di lavoratori sono stati gli agenti delle tasse. La tassa sul macinato è forse stato uno dei balzelli più odiosi che si poteva trovare e si è sempre fatto di tutto per poterla evadere. Era una tassa che affamava gli affamati. Una tassa che portò a uccisioni, ribellioni, vendette e disperazioni. Gli Archivi dei Tribunali sono pieni di carte al riguardo e aprono uno squarcio su di un mondo per noi inimmaginabile, fatto di miserie, arroganze e prepotenze. Il mugnaio si doveva districare in questo mondo e contemporaneamente difendersi dagli assalti di ladri, più o meno disperati. Non è raro trovare piccole aperture sopra le porte dei mulini dove, all'occorrenza, i molinari, dal piano superiore, spianavano le canne dei fucili per far fuoco sui malintenzionati avventori notturni.

L'apice delle tensioni si sfiorò dopo l'unità d'Italia, quando con un sistema che contava il numero dei giri della moda, divenne impossibile, poter evadere la tassa sul macinato. Molti mugnai cercarono di manomettere il contatore in tutte la maniere e altri sfidarono la legge rompendolo sistematicamente. Era certamente un atteggiamento di rivolta, di ribellione per una legge che ritenevano ingiusta, anche se non gravava su di loro. Infatti a pagare erano i clienti e il mugnaio era il tramite con cui veniva riscossa la tassa. In quel periodo, in Romagna, ci fu una sommossa contro la tassa sul macinato, che portò alla morte di alcuni dimostranti.

Al di là della tassa, l'avversione al contatore, era data dal fatto che segnando questo il numero di giri e corrispondendo al numero dei giri una determinata quantità di farina, non era più possibile evadere, cioè non c'era più nessuna possibilità di poterla far franca, cosa che, evidentemente, prima era possibile. Ma il mulino era pure un crocevia di persone, di incontri, di pettegolezzi e spesso il mugnaio l'orchestratore di tanti discorsi.


Su mulinalzu ( Angelo Morette in su mulinu)

LA PANATTARA TRESNURAGHESE

Tra storia e racconto

"A fora su daziu!"

Dall'opuscolo IL PANE TRADIZIONALE TRESNURAGHESE di Francesco Dessì

Già da parecchi giorni fervevano in paese i preparativi per accogliere il re Carlo Alberto, giunto in Sardegna per incontrare i suoi "amati e fedeli sudditi" (1). Il lungo corteo lasciò Oristano di buonora, ma nel corso del viaggio, presso Cuglieri, incontrò qualche difficoltà per il dissesto della strada, a cui si aggiunsero i frequenti rallentamenti voluti dal re per rispondere "alle manifestazioni di giubilo" che la folla gli tributava, felice di poterlo vedere anche per un attimo.

A Tresnuraghes entrò su una carrozza scoperta, accolto al suono delle campane a festa, fra le acclamazioni di "viva su Re", trattenendosi soltanto poche ore, per gustare la prelibata malvasia (2) di don Ferdinando Zedda, ricevere "gli omaggi" delle autorità e concedersi un po' di riposo. Diede anche udienza alla rappresentante delle panattare locali, Giovanna Maria Salaris, "degnandosi graziosamente" di riceverla nella sala del Municipio. La "supplicante", per nulla intimorita dall'aspetto austero del regale personaggio, dopo aver lanciato una vibrata protesta contro "l'esosità del diritto" sul pane introdotto nella città di Bosa, ne chiedeva l'esenzione. Carlo Alberto, udita la lettura della supplica, promise, appena giunto a Bosa, di sottoporre il caso a quel Consiglio Civico. Quindi, dopo il saluto delle autorità festeggiatissimo, lasciò il paese.

In attesa della risposta, ben conoscendo l'intrasigenza del Sindaco e del Consiglio bosano, le panattare affilarono le unghie. Infatti il "verdetto"non si fece attendere molto: "Giovanna Angela Salaris, e più del villaggio di Tresnuraghes mal a proposito del tenuissimo dritto d'uno per dodici pani, che introducono per consumazione in questa città, quale si esige per conto dell'Amministrazione civica dietro a Regia Tariffa dei Dazi di Consumo approvata da Sua Maestà con Regio Biglietto delli 8 novembre 1839, ed è percciò che siamo in senso di deppellire (3) la loro dimanda giacchè in caso diverso produrrebbe coragio di cercare innovazione sugli altri generi che s'introducono per consumazione (4)".

Indignate, le panattare decisero allora di sospendere improvvisamente la fornitura del pane alla città, minacciando ulteriori rappresaglie. Ad accusare maggiormente il colpo fu l'appaltatore daziario che denunciò la perdita di una rilevante somma, costringendolo a "chiamare l'indennità".

A questo punto, ritenendo opportuno non stuzzicare oltre "un tal nido di vespe", il Sindaco di Bosa implorò il Giudice Mandamentale della Planargia "d'interrompere la propria influenza per far desistere le protestanti" dalla loro assurda pretesa.

Dopo laboriose trattative fu raggiunto un accordo: le panattare avrebbero continuato a vendere il pane a Bosa a patto che fosse loro permesso di estrarre una determinata quantità di grano "pro capite", fino al raccolto, e che fosse ridotto il famigerato dazio.

Note

  1. Il viaggio avvenne nel 1843

  2. La nostra malvasia, dall'insuperabile gusto aromatico e dal soave profumo, fu il vino prediletto di Carlo Alberto, con disappunto dei "sommeliers" della Corte sabauda, strenui difensori dei celebri vini piemontesi

  3. Sta per depellere = respingere

  4. Archivio di Stato – Cagliari: Segreteria di Stato, Serie II, Volume 48

Su fraile de Tiu Antoni Cocco

Su mastru 'e ferru, oltre ad essere abile in sa ferradura de sos caddos e de sos ainos, forgiava zappos (zappe), piccos (picconi), alvadas (vomeri), istrales (accette), falzones (roncole), falches (falci), ferros de caddu e de 'oe (ferri di cavallo e di bue), briglias (briglie), friscios (serrature) e ogni altro arnese utile sia in campagna che in casa. Talvolta uscivano dall'officina del fabbro anche le cancellate e le ringhiere che ancora oggi un occhio particolarmente attento può riconoscere nell'abitato del paese e nelle campagne circostanti.       


Quando pensiamo agli antichi mestieri che fin dalla notte dei tempi hanno fatto parte della nostra storia non puo' non venirci in mente quello del fabbro.

La lavorazione del ferro è stata fondamentale per la costruzione di tantissime cose: dai semplici ferri dei cavalli, alle ruote dei carri, alle serrature, alle porte e agli oggetti di uso quotidiano che spesso rivelavano la vocazione artistica del fabbro.

Anche se considerare il fabbro "solo un mestiere" non è assolutamente giusto: è una vera e propria arte mista a passione, che incarna un lavoro antico con anche un lato misterioso.

Lavorare il ferro e sfornare pezzi sempre unici richiede una capacità di modellare e vedere nel metallo qualcosa che non tutti vedono.

Oggi, con l'industrializzazione, la lavorazione del ferro come artigiano è diventata rarissima, come rarissime sono le botteghe che seguono ancora la tradizione antica della forgiatura a fuoco.

Il mestiere del buon fabbro quindi, sembra essere diventato una sorta di lavoro "di altri tempi", e l'atmosfera dell'artigiano che modella, scolpisce e batte il ferro trasformandolo in un pezzo unico con maestria e talento, rimane sempre un'emozione spettacolare.


Su fraile era solitamente un ambiente non molto ampio, immerso nel nero della fuliggine e de su calbone, accatastato a fianco a sa furrea a fodde (la forgia a mantice). Al centro del laboratorio, un robusto ceppo d'albero sosteneva l'incudine su cui poggiavano solitamente la mazza e il martello. Addossato ad una parete, ecco su bancu (il banco da lavoro), con diversi attrezzi tra cui spiccavano immediatamente su caragolu (la morsa), su trapanu a manu (il trapano), sos malteddos (i martelli), sas tenazzas (le tenaglie), sas serras (i seghetti), sos iscalpeddos (gli scalpelli), sos asciolos (le piccole asce a gancio per nettare gli zoccoli dei cavalli).

Altri attrezzi si trovano appesi alle pareti. Vicino alla finestra, sa roda 'e acutare (la mola), che normalmente funzionava a pedale, con a fianco varie pietre da affilare, pedras acutadolzas. A fianco della forgia, ma in simbiosi con essa, stava un piccolo recipiente che conteneva l'olio necessario ad ultimare la fase di tempratura delle lame.

A lato alcune foto de SU FRAILE de Tiu Antoni Cocco


Su cattolaggiu

Chi ha un'età vicina alla mia ricorda certamente, negli anni sessanta, a metà della via Roma, accanto alla casa dei Cinellu, sa buttega de Poltolu Chirra, mastru e iscalpas, un bravo calzolaio che svolgeva la sua povera ma dignitosa professione, riparando le scarpe dei tresnuraghesi e delle persone dei paesi vicini. Era una bottega angusta, ma sempre vivacemente frequentata da persone che vi trascorrevano il tempo chiacchierando del più e del meno (narende contos) e osservando Poltolu Chirra seriamente intento al suo lavoro.

L'attività del calzolaio, su cattolaggiu, è sicuramente uno dei mestieri più antichi al mondo. In passato le botteghe dei ciabattini erano considerate praticamente indispensabili: costruire delle scarpe era molto dispendioso a causa degli elevati costi delle materie prime, per cui era necessario ripararle più volte, cambiando le parti usurate e usando le scarpe praticamente fino ad esaurimento. L'attività corrente del ciabattino, che svolgeva il suo lavoro indossando un ampio grembiule di pelle che arrivava un po' sotto le ginocchia e fissato sul davanti con delle stringhe di cuoio al collo e dietro la schiena, consisteva soprattutto nel rimuovere tacchi o suole usurate, ricucire ed incollare suole e bordi esterni, riparare i tagli sulla tomaia, applicando piccole "pezzette" e lucidando, poi, la scarpa a riparazione avvenuta. 


A COLLERE OLIA

La coltura degli ulivi

Raccoglitrici di olive
Raccoglitrici di olive

Insieme alla vigna, l'uliveto è stata ed è tuttora la coltivazione principale dei tresnuraghesi. Purtroppo i disastrosi incendi dolosi di questi ultimi anni hanno messo in ginocchio e distrutto diversi oliveti e ridotto la produzione locale dell'olio.

In passato la raccolta delle olive era principalmente svolta dalle donne con l'antico metodo molto faticoso della raccolta da terra con le mani. Anticamente l'impianto dell'oliveto si faceva nella vigna; quando si piantavano le viti, a distanza di 8 e 10 m, si piantavano anche gli olivastri; questi venivano portati precedentemente dai terreni umidi e cespugliati, dove crescevano liberamente. Affinché non danneggissero la vite, gli olivastri venivano potati togliendo quasi tutti i rami e lasciando solo qualche gemma (oggiu) in modo che si ingrossasse solo il tronco e le radici non si espandessero. Per la stessa ragione l'innesto si praticava solo dopo 6 o 7 anni dall'impianto dell'olivastro, in modo che gli ulivi iniziassero a fruttificare quando la vigna era già vecchia.

Oggi, ovviamente, la raccolta delle olive  si svolge solitamente grazie all'impiego di tecniche classiche o più moderne; sia che si scelga la via più tradizionale o quella più meccanizzata, la raccolta consiste nell'agitare i rami dell'ulivo per far cadere le olive sulle reti precedentemente stese a terra. 



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